E’ possibile parlare di transessualità in filosofia? Una risposta potrebbe arrivare dalla filosofia francese.

La critica che muovo al pensiero di Lacan di Butler in merito al concetto di corporeità passa per una differente concezione filosofica chiamata “corpo vissuto”.

La problematica di genere resta sempre la stessa. Una concezione “fallica” della realtà che io preferisco chiamare “patriarcale”. Questo perché come già detto il sesso non è mera genitalità.

La parte più interessante del discorso queer oggi passa attraverso una lotta culturale che mina a eliminare una concezione troppo forte di mascolinità e femminilità (ovvero di “binarismo di genere”) per aprire la società all’accoglienza non solo di persone omosessuali ma anche di tutte quelle persone che, a prescindere dal loro orientamento sessuali, si propongono con una identità sessuale diversa dal semplice essere maschile e femminile. Mi riferisco in particolare alle persone transessuali, transgender e intersessuali.

Qui il problema coglie ogni aspetto della loro identità, poiché una persona nata con un sesso biologico ben preciso potrebbe decidere di appartenere identitariamente al sesso opposto a quello di nascita senza necessariamente modificare la propria genitalità. Questa concezione di sessualità intesa come elemento identitario e non organico del sesso scardina una certa immagine genitale del viversi come agenti sessuali. Desiderare di avere un arto che non esiste è ben diverso dal guardarsi allo specchio e rendere i propri organi genitali un feticcio sociale.

In merito a questa immagine di sessualità torno a leggere con gli occhi di discepolo gli scritti fenomenologici. Nel già citato testo sulla percezione di Ponty, il filosofo francese punta la sua attenzione su un interessante fenomeno ovvero: “l’arto fantasma”. Si tratta di qualcosa a noi già noto. La perdita di una parte del nostro corpo, come di un braccio ad esempio, non corrisponde alla perdita sensibile e di senso di quella parte del corpo. Continuerò a percepire quell’organo anche se materialmente quell’organo non èè presente nel mio corpo.

Questo fenomeno, che tanto le spiegazioni fisiologiche quanto quelle psicologiche rendono irriconoscibile, diviene invece comprensibile nella prospettiva dell’essere al mondo. Quello che in noi rifiuta la mutilazione e la deficienza è un Io impegnato in un certo mondo fisico e interumano, che continua a protendersi verso il suo mondo nonostante le deficienze o le amputazioni e che in questa misura non le riconosce de jure.[1]

Questa specie di arto fantasma dunque rimane presente alla nostra coscienza come se non fosse mai svanito del tutto. Questa concezione è riconducibile, secondo Ponty, ad una idea di corpo intesa come «complesso innato»[2]. Una sorta di intero dunque dove memoria e percezione continuano ad essere un tutt’uno. Quell’arto perduto non era semplicemente un pezzo di carne attaccato al corpo della vittima ma era un qualcosa di molto più. Si tratta di un fascio di passato, presente e futuro che diviene un unico corpo vissuto.

La conclusione di Ponty è che questo arto fantasma ormai perduto è un semplice ricordo, «un vecchio ricordo che non si decide a divenire passato».[3]

Mi sia concesso di fare un piccolo passo in avanti rispetto alla concezione di “arto fantasma” in Ponty per poter aggiungere una mia considerazione in merito. Vorrei spostare l’attenzione sulla questione della transessualità.

Fin dall’infanzia impariamo a percepire il nostro corpo. Immaginiamo per esempio i bambini che giocano con i loro piedini o che succhiano il dito. Queste piccole esperienze sono indice di come fin dal grembo materno siamo abituati a vivere una certa intimità con il nostro corpo. Fin da subito ne comprendiamo i limiti e impariamo a muovere questi limiti (che sono la sagoma della nostra persona) all’interno dello spazio. Poiché non esiste alcun dualismo tra mente e corpo, vivrò la mia fisicità come assolutamente aderente a me stesso. Anche nell’inconsapevolezza di me sarò sempre io a vivermi e non altri. Il corpo è unità di vissuti che interagiscono fra loro: quando allungo il braccio per prendere un bicchiere sarò capace di essere cosciente di quel movimento e lo percepisco come mio, stessa cosa accade con i primi moti sessuali, quando da preadolescenti si inizia ad esperire una prima fase di eccitamento sessuale siamo consapevoli che qualcosa viene da noi ma non sappiamo ancora cosa. A un certo punto della loro esistenza alcune persone non riescono a riconoscere questo limite corporale (e dunque sociale) come il loro. Sebra quasi di assistere, ora si, ad uno sdoppiamento del corpo con la propria mente, ad un dualismo. La loro genitalità dunque non corrisponde al loro Io e tutto quello che sembrava essere un corpo vissuto sembra ora una prigione che intrappola i nostri sensi in una sessualità sbagliata. Com’è possibile questo sentirsi estranei al proprio corpo?

Nel mio vedermi identitariamente sbagliato compio un processo di sostituzione della mia corporeità per poter essere quanto più simile ai genitali che non mi appartengono. Li potremmo chiamare “genitali fantasma” o con più precisione “corpi fantasma”.

Dentro di me avverto la presenza di un corpo sessuato che però è fuori di me. Il mio vissuto appartiene ad un corpo fantasma che non esiste. Ecco dunque che questa forma dualistica appare come maligna e non come benigna.

Come risolvere questo dualismo maligno sembra molto semplice. La vera cura per una persona transessuale non è di carattere psichiatrico. La vera cura è veder sanato questo dualismo anima/corpo nel pieno riconoscimento unitario del corpo sessuato al quale si sente di appartenere, poiché l’esistenza biologica è innestata a quella umana. Poiché sarebbe un male modificare l’esistenza umana di modo che appartenga al corpo, è meglio modificare il corpo perché appartenga alla propria esistenza. Questo perché, non vedo quale problema ci sia nel compiere tutto questo. Non vedo nessun Dio che punisce intorno a me. Vedo solo piena libertà espressa dalle persone.

A corpo libero, oltre la dominazione sociale.

Diceva Ponty che la sessualità non è “drammatica”, siamo noi a definirla tale poiché riteniamo che essa sia la padrona di tutta la nostra esistenza. Tuttavia diceva:

Il medesimo motivo che impedisce di ridurre l’esistenza al corpo o alla sessualità, impedisce anche di ridurre la sessualità all’esistenza: non si deve dimenticare che l’esistenza non è un ordine di fatti (come i fatti psichici) che si possa ridurre ad altri o al quale si possano ridurre questi ultimi, ma l’ambito equivoco della loro comunicazione, il punto in cui i loro confini si confondono, o, ancora, la loro trama comune.[4]

Ecco allora che il vecchio vizio dell’uomo di ridurre tutto a genitalità cade come fondamento. Essere transessuali non ha nulla a che fare non i genitali. Essere transessuali vuol dire a che fare con il sesso e dunque con l’anima e l’esistenza di una persona.

Siamo così assoggettati dalla società dei controlli che non siamo capaci di rispettare questo principio di libertà. Ogni volta che una persona si dichiara omosessuale o transessuale o queer andiamo immediatamente ad indagare cos’ha sotto le mutande poiché siamo inibiti dalla falsa idea che essere trasparenti e nudi vuol dire essere sicuri. Dice Chul Han in “La società della trasparenza” che tutto ciò che è invisibile passa in secondo piano, poiché solo ciò che è esposto suscita il pieno interesse della società. Dunque non è possibile lottare, pare, senza dover necessariamente mettere in mostra i propri genitali. Per Sartre era osceno quando ridotto alla pura fatticità della carne. Per noi la persona Transessuale è oscena poiché la riduciamo alla sola genitalità, che, ovviamente, non rispettando i pornografici canoni estetici, ci risulta diversa, sbagliata. Siamo tutti nudi come Adamo ed Eva lontani dalla Grazia di Dio.

Dunque, siamo ancora liberi? Lo siamo mai stati?

In cambio di sicurezza cediamo il controllo della nostra intimità ad altri agenti. Poiché

Dove domina trasparenza non esiste spazio alcuno per la fiducia. Invece di dire “la trasparenza realizza la fiducia” bisognerebbe dire “la trasparenza esclude la fiducia”. [5]

Ciò che è venuto a mancare oggi non è una semplice perdita di fiducia verso gli altri. Non è solo voglia di controllare l’altro perché potrebbe farmi del male. Si tratta di una vera è propria perdita del mio essere libero.

Che cosa è la libertà? È la stessa domanda che si pone Ponty. Per lui vuol dire

nascere dal mondo e al tempo stesso nascere nel mondo. Il mondo è già costituito, ma non è mai completamente costituito. Sotto il primo rapporto siamo sollecitati ma sotto il secondo siamo aperti a una infinità di possibili.[6]

Quando nasciamo entriamo in relazione con un mondo già stabilito. Non siamo noi a creare suoni, colori, sensazioni, immagini ecc. Quando nasciamo tutte queste cose sono già presenti nel mondo e le esperiamo con il nostro corpo, le facciamo nostre. Il mondo è a nostra portata di mano, davanti a noi si plesano infinite possibilità di modificazione della realtà poiché il nostro corpo vive una infinità di possibilità (mutare il mio sesso, la mia identità, il mio corpo ecc.). Abitiamo un “io posso” capace di inserirsi libero nella realtà circostante.

Tuttavia questa piena libertà ci terrorizza a volte e ci rende immobili, incapaci di realizzare al meglio i nostri potenziali, neghiamo a noi stessi e agli altri di poter avere infinite possibilità.


[1] M. Merleau- Ponty, Idem, p. 130.

[2] Idem, p. 133.

[3] Idem, p. 135-135.

[4] Idem, p. 234.

[5] B. C. Han, Idem, p. 80.

[6] M. Merleau- Ponty, Idem, p.578.

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